Because the cases of Assange, Snowden and Manning are still important for journalism
Hanno iniziato un dibattito che serviva alle nostre democrazie, ma sulle loro teste pendono ancora capi d'accusa che equiparano il giornalismo libero a un atto di spionaggio
Un’installazione dello scultore Davide Dormino a Ginevra, Svizzera, rappresenta i tre whistleblower (foto: FABRICE COFFRINI/AFP via Getty Images) Nel suo saggio Il tempo della rivolta (Bollati Boringhieri), Donatella Di Cesare dedica diverse pagine a Edward Snowden, Julian Assange e Chelsea Manning , tre figure cardine che negli ultimi dieci anni hanno contribuito in modo radicale a evidenziare il potenziale del whistleblowing (e del giornalismo) di sollevare questioni fondamentali, portandole all’attenzione del pubblico. “Le loro scelte” , scrive Di Cesare, “hanno dischiuso un oltreconfine, lasciando intravedere nuove possibilità ” . Il decennio 2010-2020 è stato intriso di dibattiti attorno a questioni come l’impatto della tecnologia sulle società contemporanee, la sorveglianza di massa e lo sfruttamento capitalistico delle identità personali online. Come è ormai palese, questi non sono più temi puramente tecnologici o specialistici : al contrario, sono tematiche politiche nel senso più ampio possibile, terreni di scontro civile e democratico. L’inclusione di Manning, Assange e Snowden nell’alveo delle costellazioni delle rivolte contemporanea proposta da Di Cesare è emblematica perché la pratica dei leak è stata spesso il momento iniziatico di quei dibattiti fondamentali: il disvelamento della coltre di segreto, l’emersione delle prove e, appunto, di nuove possibilità . Senza la breccia aperta da quei leak nell’interesse pubblico non avremmo avuto quei dibattiti e quei temi non avrebbero scalato le priorità delle agende dell’informazione e della politica con la medesima forza. Questo perché la società dei dati in cui abitiamo, nonostante le visioni utopistiche di trasparenza che l’hanno annunciata e accompagnata per anni, ha moltiplicato le occasioni di segretezza, di opacità , di oscuramento dei suoi meccanismi statuari. Dieci anni dopo l’inizio di quelle rivolte, però, le storie umane che l’anno resa possibile non sono ancora tutte giunte a una soluzione.Manning, la whistleblower responsabile delle maggiori rivelazioni di WikiLeaks del 2010, dopo un decennio di resistenza a bullismo legale, pene draconiane e incarcerazioni prossime alla tortura, è finalmente – e si spera definitivamente – una donna libera , liberata nel 2018 per intercessione presidenziale di Obama da una condanna che l’avrebbe altrimenti tenuta in carcere con l’accusa di spionaggio per 35 anni. Le vicende di Snowden e Assange, invece, sono ancora irrisolte. Su entrambi pendono accuse senza precedenti che equiparano atti di giornalismo allo spionaggio e che, come fu per Manning, se trasformate in condanna, porterebbero entrambi a decenni di carcere. Per questa ragione, nelle ultime settimane, si sono moltiplicate le voci che premono sulla Casa Bianca affinché conceda loro una qualche forma di perdono. Trump, da presidente uscente, ne avrebbe facoltà . Finora, però, il presidente sconfitto alle elezioni sembra intenzionato a voler utilizzare questo strumento solo in relazione ai suoi affari e al suo cerchio magico di faccendieri coinvolti nel Russiagate. Certo sarebbe paradossale se il presidente più avverso alla libertà di stampa, alla democrazia e ai diritti civili che gli Usa abbiano mai avuto decidesse di perdonare un whistleblower come Snowden e un editore come Assange. I tratti più detestabili e distopici del 45esimo inquilino della Casa Bianca non devono però distrarre dalla battaglia per la grazia nei confronti di Snowden e Assange, perché i loro casi legali mettono in gioco il futuro del giornalismo investigativo e della possibilità che altri leak possano nutrire il dibattito pubblico. O, per citare ancora l’ottimo saggio di Donatella Di Cesare, che rivolte simili possano avvenire ancora in futuro.
Il caso di Snowden è il più lineare . Snowden, la quintessenza del whistleblower della nostra epoca, cui dobbiamo le rivelazioni sulla sorveglianza di massa del 2013, vive da allora e contro la sua volontà da esiliato senza passaporto in Russia, unico paese ad avergli concesso ospitalità e dove, inevitabilmente e dopo sette anni dopo esserci arrivato a mani vuote, Snowden si è ricostruito una vita, mettendo anche al mondo recentemente il suo primo figlio. Varie teorie del complotto, sempre molto popolari in Italia, per le quali tutta la sua vicenda sarebbe dall’inizio un oscuro piano russo, non hanno mai trovato alcun barlume di prova. Snowden è accusato dagli Usa soprattutto ai sensi dell’Espionage Act, una legge risalente ai tempi dela prima guerra mondiale che nell’ultimo decennio è diventata l’arma preferita delle amministrazioni Usa (Obama prima e Trump poi) per colpire i whistleblower che hanno causato fughe di notizie ai più alti livelli del governo e dei servizi. Qualora tornasse negli Usa, Snowden verrebbe certamente condannato severamente quanto Manning, a sua volta processata ai sensi della stessa legge. Il paradosso, nel caso di Snowden, è che i fatti ne hanno vendicato in vario modo le azioni: tribunali statunitensi hanno certificato l’illegalità di diversi programmi da lui denunciati e diverse riforme legali sono state possibili grazie alle sue rivelazioni. Il whistleblowing di Snowden, come già quello di Manning, è stato puro servizio pubblico . Il perdono per Snowden è stato sostenuto, tra le altre, da Amnesty International, Aclu, e Human Rights Watch. Nel 2015, invece, il Parlamento europeo votò in favore della sua non-estradizione dal territorio dell’Unione, ma nessun paese si è mai fatto avanti per accogliere Snowden sul suo territorio.
Il caso Assange, invece, è più complesso , come il suo stesso protagonista. Non esiste un’altra personalità che sia stata prima tanto portata in un palmo di mano dalla stampa internazionale e poi tanto bistrattata quanto Assange. I fatti del 2016, con il coinvolgimento di WikiLeaks nel Russiagate e con la piattaforma di whistleblowing a fare da principale canale di diffusione delle mail dei democratici sottratte da una serie di cyberattacchi voluti dai servizi russi è certamente costato ad Assange una fetta importante del sostegno di cui aveva goduto anche in ambienti liberal fino a quel momento. Julian Assange, però, si trova da aprile 2019 in carcere nel Regno Unito in attesa di conoscere se sarà estradato negli Usa, dove ad attenderlo ci sono, tra gli altri, oltre 17 capi di accusa ai sensi dell’Espionage Act in relazione alla pubblicazione dei file ottenuti nel 2010 da Chelsea Manning. Il Russiagate e le mail del Partito democratico – un caso avvenuto sei anni dopo quelli contestati dalla giustizia Usa – non c’entrano nulla e nemmeno il celebre rapporto Mueller ha portato alla formalizzazione di accuse formali contro Assange o WikiLeaks. È più che legittimo criticare Assange per quegli eventi o altri o per le scelte editoriali della sua organizzazione, ma bisogna sottolineare come l’orologio della giustizia Usa sia fermo alla pubblicazione dei file sulle guerre in Afghanistan e Iraq, al Cablegate e al video “ Collateral Murder ”, forniti da Manning e pubblicati da WikiLeaks in collaborazione con alcune tra le maggiori testate giornalistiche del pianeta, a cominciare da Guardian e New York Times nel 2010.
Assange è un personaggio divisivo come pochi altri , ma in questo caso giudiziario infinito che, in buona parte è stato indagato in segreto e che è stato al centro di uno stallo diplomatico tra Usa, Regno Unito e Svezia, è fondamentale guardare anche in prospettiva all’impatto che una eventuale condanna di Assange potrebbe avere sul giornalismo nel complesso. La tesi dell’accusa va infatti nella direzione dell’ equiparazione della pubblicazione di documenti segreti e di interesse pubblico allo spionaggio : Assange non è un whistleblower, non è una fonte, è un editore. Pubblicare leak di questo tipo è una strategia giornalistica comune, perseguita dai giornalisti di inchiesta in tutto il mondo con pratiche – si pensi ad esempio all’uso della crittografia forte per la protezione delle fonti – in tutto e per tutto simile a quanto avvenuto tra Manning e WikiLeaks un decennio fa. Il rischio è, quindi, quello di creare un precedente grave che potrebbe criminalizzare anche altre testate allo stesso modo. Nel 2016, inoltre, il Working Group on Arbitrary Detention delle Nazioni Unite aveva definito la permanenza di Assange nell’ambasciata dell’Ecuador di Londra – durata oltre 7 anni – come una “ detenzione arbitraria ”. Qualche settimana fa, invece, il relatore speciale delle Nazioni unite sulla tortura, Nils Melzer, ha chiesto la scarcerazione di Assange, denunciando, tra gli altri, anche palesi ragioni di salute. La liberazione, o il “ perdono ”, del fondatore di WikiLeaks è stata chiesta, anche in questo caso, da Reporters Without Borders, Amnesty International, Consiglio d’Europa, International Federation of Journalists, Pen International, European Centre for Press and Media Freedom, Index on Censorship, Guardian, New York Times , tra gli altri. Le autorità inglesi decideranno in merito all’estradizione di Assange il prossimo 4 gennaio.
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